settimanale gli Altri 1 aprile 2011 di Aurelio Mancuso

Libia, Medio Oriente, Africa, guerre, ingiustizie, pandemie, disastri ambientali, di questo si è sempre occupato il movimento pacifista italiano, collegato con differenti movimenti per il riscatto sociale che operano nel mondo. Un compito immane, condotto con grande serietà e tenacia, da quando dal 1982 in poi, è rinato il movimento pacifista che allora si confrontava con la grande stagione del riarmo nucleare dei due blocchi. La polemica dei cosiddetti novelli pacifisti della destra italiana, che in questi giorni hanno chiesto in tutte le tv dov’era il movimento pacifista, fa parte del solito dibattito strumentale. Questa tiritera è utilizzata sempre dalla destra quando pensa di dover scaricare le sue contraddizioni sul movimento pacifista o a quello delle donne. Detto questo, nessuno a sinistra, e questo è davvero un grande dispiacere, mette in discussione idee e strategie del movimento pacifista italiano. Neppure quei partiti che hanno votano in Parlamento a favore della guerra in Kosovo, in Afghanistan ecc ecc, hanno il coraggio di aprire un vero confronto. Il movimento pacifista, come tanti altri movimenti italiani, risente pesantemente di un’ossificazione del pensiero, delle modalità organizzative, delle alleanze del tutto evidente, che però non emerge mai. Perché? In primo luogo perché anche in questo campo chi dirige sembra inamovibile, sempre in prima linea, abbarbicato alle assemblee orizzontali dove, però alla fine prevalgono le opinioni moderatamente esposte dalle grandi sigle strutturate, che pagano i conti, che mettono a disposizione le loro macchine organizzative. Le manifestazioni costano, e tanto, quindi, al di là del buonismo e della facciata a rete, quello che conta è la capacità mobilitativa di un popolo che non ha mai elaborato il lutto della fine politica di una sinistra variamente pacifista (ma che non ha mai sposato fino in fondo la non violenza) e cui interno c’è di tutto: dagli scout ai centri sociali, dalla Cgil e Arci agli ordini religiosi. Un misto fritto che si porta dietro enormi ambiguità valoriali, prima fra tutte il silenzio sostanziale sui diritti umani e civili. Certo alcuni tentativi sono stati fatti, per esempio a Firenze ci fu un gruppo che discusse di diritti civili, ma nella sostanza nei grandi appuntamenti tipo la Marcia Perugia – Assisi, non una parola può esser pronunciata sulla pena di morte presente in 80 stati del mondo nei confronti delle persone omosessuali. Così come nessuna riga può esser scritta sulle leggi islamiche presenti anche in Palestina che condannano le libertà sessuali, che escludono le donne, ecc. ecc. Insomma il patto catto comunista classico, di cui il movimento pacifista italiano è l’emblema, scientificamente esclude tutto ciò che è diritto umano individuale, consegnando la giusta vocazione pacifica e di risoluzione politica dei conflitti, a una visione neutrale della vita concreta delle persone. Non una parola è stata in questi giorni pronunciata sul fatto che le rivolte nei paesi arabi sono state in gran parte suscitate da giovani e giovanissime, che hanno utilizzato gli strumenti moderni della comunicazione tra cui Facebook, e che questa presa di coscienza straordinaria parte proprio da reti informali, di donne, di gay, di studenti, di oppositori politici. Arci, Cgil e tante altre organizzazioni della sinistra sono da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti civili, ma quando varcano la soglia delle assemblee pacifiste, lasciano fuori i diritti civili. Un’altra delle orrende anomalie italiane, che non sembra si voglia correggere. Forse perché questo innescherebbe un confronto talmente conflittuale da dover finalmente subire il crollo del proprio muro di Berlino.

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