Settimanale gli Altri venerdì 19 agosto 2011

di Aurelio Mancuso

L’estate più triste del nostro tempo srotola i suoi giorni tra gli italiani in ferie, di cui molti rimasti a casa, e quelli che il riposo forzato lo vivono con mestizia e disillusione. Precarie le vite ricattate da un lavoro incerto, sottopagato, in una porzione enorme dell’italico suolo remunerato in nero, le persone si arrangiano sempre più, non in attesa di un miglioramento, sempre più rabbiose nei confronti di una politica di cui generalizzano l’inumanità, la spocchia, l’ingordigia gerarchica. Sotto gli ombrelloni di Riccione, come di Gallipoli serpeggia il rancore per troppo tempo represso, un sentimento tenuto a bada nelle albe annerite dallo smog e cariche di umido freddo nei sottopassanti milanesi, piuttosto che nelle chiassose metropolitane romane, ma che ora proprio il sole, il caldo, il cocomero in spiaggia, o la polenta in alta montagna fanno impetuosamente emergere . I partiti,  i sindacati, l’associazionismo sociale cui la gran parte degli italiani sono iscritti o perlomeno sostenitori, non possono sentire l’amaro senso di svuotamento, che appare sempre più una resa all’ineffabile destino del decadimento. In un crollo vertiginoso della fiducia in qualsiasi organizzazione o emblema nazionale e pure locale, si espande come un vento gelido sull’afa agostana dai rifugi alpini, nelle mura dei musei, aggredendo ogni costa salata, lago, isola, il sentimento della rabbia. L’odore dolciastro delle creme solari, buffamente pasticciate dalla sabbia che vola libera grazie alla lieve brezza marina, che ricorda come il caldo non è invincibile, non da più conforto.  Inutili sono le solerti animazioni sui lidi romagnoli o dei campeggi viareggini, certo si ride ancora, ma l’italiano medio, dalla casalinga di Voghera, ai pompieri di Viggiù fino ai pizzaioli di Spaccanapoli, prova sempre più rabbia. Non si tratta di una rabbia consolatoria, né tantomeno di una rabbia trasformativa, che progredendo abbandona il rancore infantile e diventa determinazione, azione. No, la rabbia italiana è passiva, al limite si esprime nei litigi di condominio o di lettino per la musica troppo alta o il fracasso dei bambini,  sempre più repressi e vittime eccellenti dell’abbandono del buon senso nel nostro subdolo paesone familista, lacrimante quando una vita vede la luce, e indignato quando si scoprono violenze e soprusi, poi dopo 24 ore si passa ad altro, e la ruota dell’indifferenza riprende il suo ciclo. Immersi come siamo nei disastri economici, di una classe politica inadeguata, un governo buono nemmeno per l’avanspettacolo, noi italiani possiamo crogiolarci nel nostro più antico e conosciuto rito: molte urla, alcun cambiamento. Gli italiani sono stufi, come quando erano invasi continuamente dai barbari, che a loro volta son diventati italiani, consegnandoci un medioevo dove ogni gruppo di case superiore a tre, aveva il suo signorotto, la sua edicola, il camposanto, e naturalmente un nome altisonante che solo l’impero romano poteva lasciare in eredità. A questo i perugini come i trentini, gli eporediesi come i sorrentini, sono riusciti a incollarci, grazie alla più grande e meravigliosa organizzazione mondiale che ha attraversato i secoli, non indenne, regina della superstizione, tutti i santi e riti rurali e cittadini che la nostra non debole fantasia poteva donarci, inclusi stemmi e giostre cavalleresche. Nella sostanza, viene da dire, con beffardo e ostentato menefreghismo rispetto alle dotte e noiose, quanto consunte analisi sociologiche sul nostro Bel Paese, che il nostro mondo odora di stantio, con sempre più evidenti segni di decomposizione. Nel nostro rassicurante medioevo straboccante di tv spazzatura, calcio miserevole, un Parlamento che ritarda la riapertura perché ben 200 deputati e senatori, vogliono tutti insieme andare a pregare in Terrasanta (Signore mio, non volgere il tuo sguardo benevolo su questi ipocriti servi della propaganda clericale). La rabbia degli italiani è comprensibile, viene persino voglia di fare il tifo affinché davvero esploda e spazzi via questo tempo che sta soffocando ogni speranza, ma bisogna esser pratici: questa è una rabbia malinconica, mesta, che appunto come un gene impazzito ciclicamente si “risveglia” tra il popolo italiano, e lo rende spettatore, incazzato, inerte. C’è sempre qualcosa di più vicino, di più comodo con cui prendersela. Pensando al proprio piccolo mondo, dalla stretta cerchia familiare al limite fino a l’arrogante che ti è passato davanti nella fila per prendere il gelato ai figli sul lungomare di Spotorno, l’italiano conchiude la sua rabbia rancorosa e la offre al prossimo demagogo che con i mezzi i più vari, in una terra dove la regola non è una religione e la religione impone le sue immorali regole, riuscirà a convincerlo che siamo di nuovo davanti a nuovo inizio, magari la prossima volte senza tante luci e denti splendenti. Guardare dall’esterno il tuo popolo non è di solito un esercizio di umiltà, ma come si può ancora tacere su un sentimento che non prendere la parola e segna però inesorabilmente il nostro tempo? Non venga a nessuno in mente di mettere in relazione i grillini, o l’antipolitica alimentata da sinistra, sapientemente cucinata dai media “democratici” al semplice scopo di promuovere questo o quel leader come il salvatore della Patria, o peggio i figli che vogliono uccidere i padri, sostenendo idee più antiche dei nonni: dai rottamatori ai cambiatori di professione. Questa rabbia se ne frega di questi dettagli, non legge La Repubblica, non frequenta i blog urlanti, non si interessa dei festini berlusconiani, così come non si intende dell’ipocrisia moralista di troppa sinistra, prescinde da tutto questo e si nutre semplicemente del vuoto di generosità  che da un ventennio e forse più, ha preso posizione nei palazzi della politica, ma soprattutto dei sempre eterni poteri forti, che almeno una volta provavano qualche pudore a mostrare la faccia feroce del dominio, perché si giustificava anche grazie a uno stile silente. La crisi incombe, il disastro si proclama ogni giorno dagli USA alla Cina, un mondo è chiaramente messo in discussione, la finanza, la speculazione, quello che ancora si chiama il Capitale, vive un’evidente e imprevedibile mutazione. La differenza tra noi, per limitare l’ambito, e il resto dei  popoli europei, è che il primato riconosciuto è quello dello Stato, inteso come la sintesi dei pregi e dei difetti di organizzazioni sociali e politiche che hanno immesso precisi anticorpi all’ossificazione e all’immobilismo. In Italia ci tuffiamo ogni istante nelle nostre vanagloriose radici e tradizioni, cercando di destrutturarle per non renderle troppo imbarazzanti rispetto all’attuale inglorioso presente, il risultato è l’infantilismo capriccioso. La rabbia non si attenuerà a breve, quando muterà volto oggettivamente non se ne ricorderà più nessuno, perché per gli italiani la memoria non è un bene, è solamente un fastidioso riacutizzare il nostro peggior difetto: il lamentoso conservatorismo. Cambierà? Forse sì, per ora no. Non si può negare che potrebbe accadere che un risveglio collettivo ci faccia rinsavire utilizzando questa evanescente rabbia in conflitto, allora sì che indecorose inamovibili classi dirigenti, pasciuti e simoniaci gerarchi ecclesiastici, spocchiosi faziosi media, potrebbero finalmente temere; sarebbe davvero una bella giornata.

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